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Il meglio è nemico del bene?

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Guest post di Paola Maritano www.normanpress.blogspot.com

Quattro semplici principi per arrivare al risultato, di Leo Babauta, è una guida efficace e mi suscita, tra le altre riflessioni, questo dilemma:

puntare sempre alla perfezione o fare le cose comunque, purché siano fatte?

Una volta ho ricevuto un saggio consiglio: punta sempre in alto, se vuoi raggiungere il bersaglio.

Le nostre risorse sono come una freccia che tende ad abbassare la propria traiettoria prima di centrare il suo obiettivo: dunque deve essere scoccata mirando un po’ più in alto ancora di dove si vuole arrivare.

Punta “un po’ più in alto”, e arriverai dove vuoi. 😀
Però mi piace raccontare una storia.

Parecchi anni fa, a scuola, mi trovai a svolgere il primo compito in classe di latino: versione.

Un brano di una dozzina di righe da tradurre. Mi misi all’opera con impegno e concentrazione, naso nel vocabolario, curando frase per frase, parola per parola, in un lavoro minuzioso, paziente.

Peccato che, al termine delle due ore di tempo, la mia traduzione si limitasse a circa sei delle dodici righe. Non mi restava che consegnare. Al momento della restituzione dei compiti, l’insegnante era in preda allo sconcerto: “E’ perfetto, neanche un segno rosso… ma ne manca tutto un pezzo!”.

Ancora oggi immagino la sua concitazione nel cercare un secondo foglio, una brutta, qualcosa che contenesse il seguito. Mi diede 6, a malincuore,
e sembrava più dispiaciuto di me.

La volta dopo, lavorai in un altro modo, badando ad arrivare alla fine e a mettere insieme delle frasi più o meno corrette e di senso compiuto.


Il voto fu otto, o qualcosa del genere; c’era sicuramente qualche segno rosso e blu: ma il compito finito, con qualche imprecisione, valeva di più di un mezzo lavoro praticamente perfetto.
Alcuni anni più tardi, una persona a me molto cara rifletteva con me su simili argomenti, e mi riferì una massima pronunciata spesso dalla sua bisnonna: “Il meglio è nemico del bene“.

Quando ci si preoccupa soltanto della perfezione, senza saper mai essere soddisfatti del livello raggiunto, anche un buon lavoro rivela sempre delle pecche insopportabili all’occhio del perfezionista.

Poiché nulla è assolutamente perfetto e nemmeno, di solito “praticamente perfetto” (a parte, come noto, l’ineguagliabile Mary Poppins!), il lavoro non è mai pronto, non è mai finito – e alla fine nella maggior parte dei casi rimane un nulla di fatto: come se non si fosse nemmeno iniziato – eppure lavoro, idee, energie, risorse etc. sono state spese in quantità e qualità spesso superiori che per lavori un po’ meno perfetti idealmente, ma in definitiva riusciti.


Esattamente come sintetizzato al punto due dell’articolo di ZenHabits: “good enough”, bene abbastanza, “va bene così”, è l’atteggiamento necessario quando si tratta di portare a compimento un’opera, arrivare alla realizzazione.

Non si tratta affatto di fare le cose male, e nemmeno propriamente di scendere a compromessi:

si tratta di canalizzare verso un obiettivo le risorse impiegate, evitando di disperderle con la pretesa di dover fare “sempre meglio” prima di poter dire,  semplicemente, di aver fatto qualcosa.


Sarebbe possibile, dunque, sostenere che sia meglio un atteggiamento oppure un altro, che sia preferibile o la perfezione ad ogni costo o il fare qualcosa, purché sia?
Mi pare che l’esperienza mostri che non è così.

Chiaramente fare le cose al meglio è una buona massima – ma non aiuta se porta ad una paralisi, all’incapacità di agire per paura di sbagliare, a lavorare interminabilmente senza portare nulla a compimento. 😉


Uno dei temi cardine di queste pagine è il perseguimento dell’eccellenza.

Ora, queste altre riflessioni vogliono forse smentire quanto riguarda l’eccellenza, la ricerca del “meglio”, del “miglioramento”? Niente affatto.

Si tratta invece di accettare un semplice fatto: migliorare non significa annullare tutto ciò che si percepisce come un difetto e ottenere una perfezione assoluta e improvvisa – migliorare significa prima di tutto partire da un modello di perfezione e dalla constatazione di una situazione di fatto che presenta alcune manchevolezze; come secondo passo, significa lavorare perché anche in un solo, piccolo, aspetto quella situazione di fatto si avvicini al modello, all’idea di perfezione.


Spesso ho notato che chiunque abbia intrapreso un percorso di miglioramento (che riguardi un allenamento sportivo, lo studio, il lavoro, il modo di coltivare relazioni sentimentali o sociali in genere o qualunque altro aspetto) presto si accorge della gioia, soddisfazione e benefici generali che arreca ogni piccolo passo. Mi pare che si possa dire questo: nell’imparare ad assaporare ogni piccolo passo, qui sta la gioia del vivere e del coltivare il “meglio” in modo sano – “bene”.


Così anche il saper accettare che un lavoro sia compiuto, una volta che è armoniosamente sviluppato, anche se non “perfetto”, è uno degli aspetti del coltivare l’eccellenza, che “non vuol dire neppure essere meglio degli altri, è sempre autoriferita, cioè riferita a se stessi”, ed “è semplicemente il Meglio di Te”.(e-book Il Segreto dell’Eccellenza, pp.3-5). 😀

Si tratta, mi piace leggere così il finale del racconto “Candide” del filosofo Voltaire, di “coltivare il proprio giardino”.


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